Sguardi in attesa
Ripensando a Settembre, il film di Giulia Steigerwalt
Se Settembre di Woody Allen ci aveva messo di fronte a una bergmaniana disfunzionalità femminile, in Settembre di Giulia Steigerwalt troviamo invece una carrellata di sguardi femminili, a diversi stadi della vita, sguardi che vedono, interrogano e soprattutto catalizzano il cambiamento di uomini incapaci di mettere autonomamente in discussione il ruolo nel quale sono stati cresciuti, per il semplice fatto che non sanno di esserne ingabbiati. Lo sguardo di Ana, la giovane prostituta che non ha perduto l’innocenza, ci ricorda quello di Liv Tyler in Ballo da sola, se non fosse che Ana non è una Lolita, sa già come il mondo gira per una come lei, e invece di manipolare dice la verità, su di sé, su chi ha di fronte. La dice al suo cliente abituale (Guglielmo – Fabrizio Bentivoglio), quando finalmente lui si accorge di lei, e si prepara a dirla al ragazzo di cui si è innamorata. Poi c’è la preadolescente Maria, alla scoperta del sesso, disarmante nella sua disponibilità muta e indifesa, e al tempo stesso invulnerabile perché non immagina debba esserci nessuna lotta da combattere.
Ma è nello sguardo di Barbara Ronchi che Steigerwalt fa affiorare l’alone luminoso di una femminilità allo stato nascente, mista della stupefazione per le energie che, pure nell’ultimo scorcio dell’estate, la sua essenza è in grado di liberare. Qui Ronchi è priva della goffaggine, delle debolezze caratteriali o della superficialità a cui ci avevano abituati altri ruoli visti in precedenza. In Settembre Barbara Ronchi è Francesca (anzi Fra’, perché i romani non hanno tempo da perdere con i nomi detti per intero), una donna come tante, verrebbe da dire. Il suo ruolo lavorativo è lasciato sullo sfondo, forse per non offrire vie di fuga dall’ordinarietà di una vita di moglie grottescamente ignorata, di madre comprensiva e fiduciosa di un adolescente in rotta con il padre, di amica del cuore di Debora, anzi De’ (Thony), e soprattutto di paziente ginecologica oggetto di una frettolosa diagnosi di tumore, perno su cui la vicenda si avvita e prende lo slancio verso il cambiamento. Nello sguardo di Barbara Ronchi il film materializza una postura che raramente ci è dato vedere, una forma dell’esitare che chiamerei sulla soglia. Apparentemente priva di piani o pretese, e ripetutamente delusa, Fra’ è ancora in grado di sorridere a un marito che probabilmente non l’ha mai vista. Mentre si sta preparando a tornare in ospedale dove è stata convocata per un approfondimento diagnostico, nella sua mattina di rituale frustrazione fa irruzione De’ come una folata di vento. L’energia carica di empatia di De’, che la accompagnerà alla visita, fa corto circuito con l’indifferenza del marito, condensata nell’ennesima camicia sporca abbandonata sul pavimento e il lavello intasato di cui lui non si fa carico. De’ imbraccia la stessa ventosa con la quale invano Francesca si era accanita e al primo tentativo il sifone si libera in un’esplosione d’acqua. Dalla camicetta bagnata di De’ alla battaglia di spruzzi il passo è breve. Fra’ e De’ ne escono bagnate e sfinite dal ridere, in un gioco che porta le due amiche di sempre verso una relazione al femminile, non perché siano necessariamente lesbiche, ma in un colmare il vuoto lasciato aperto dalla cecità e dalla disastrosa inutilità degli uomini.
È il muto sconquasso innescato dal sospetto della malattia, la Malattia con allegata sentenza di Morte, a spingere Fra’ a oltrepassare la soglia. Da questo affaccio le scivolano di dosso i cascami degli infingimenti e delle promesse a vuoto. La verità si manifesta inattesa, in un bacio all’amica De’, in parole di chiarezza e di confine che lasciano lei per prima stupefatta. Poi, quando la mareggiata dell’approfondimento diagnostico si ritira, la vita che Fra’ si ritrova fra le mani è simile a un arenile disseminato di alghe sradicate e detriti che non è più possibile ricomporre nel quadro coerente che li aveva tenuti insieme, a dispetto del dolore e dello scontento, per tutto il tempo della quiete. Non se ne può fare nulla, se non … dire la verità, lasciare che la verità dica se stessa e la vita si ricucirà, in un modo così semplice e ovvio. E al marito che guarda stupefatto la moglie andarsene mano nella mano con l’amica, leggera e sicura del passo che fino cinque minuti prima non avrebbe immaginato di poter/voler compiere, a quel marito basito e ottuso, Fra’ lancia la materna rassicurazione: “vedrai che prima o poi capisci”.
PS : Settembre è un film di Giulia Steigerwalt del 2022. Il ginecologo è interpretato da Fabrizio Bentivoglio, magistrale nell’evolvere dalla sfatta opacità dell’uomo lasciato dalla moglie che non sa rimettersi in piedi alla luminosità di chi si accorge di qualcuno di cui può prendersi cura. Non è la prima volta che, da Scialla! in poi, gli vediamo compiere il miracolo: mettere in scena quella vena di debosciataggine che gli riesce così bene e che, nel corso del film, si stempera in un circospetto incamminarsi verso il cambiamento (cautela condensata nel commento “così magari riesco pure a essere un po’ meno sfigato”).