E.R. – disintossicarsi dall’emergenza
Vedo le prime stagioni di E.R. a un quarto di secolo dalla loro messa in onda. Non le trovo datate, anzi. Probabilmente E.R. ha infuso nel medical drama elementi nuovi, che saranno ripresi nei migliori esempi degli anni seguenti. Venticinque anni sono pochi e anche tantissimi. Gli operatori al desk dell’accettazione stanno imparando a usare i computer e gli esiti degli esami diagnostici sono consegnati a voce o a mano. Ma lo scarto tecnologico non urta lo sguardo. Semmai, la ridotta mediazione tecnologica rende il rapporto medico-paziente ancora più diretto e fisicamente intimo… le mani che strappano i malati alla morte e li preparano per la sala chirurgica gli entrano letteralmente nel corpo, massaggiano cuori e clampano arterie per fuoriuscirne insanguinate, il sangue schizza sui camici e sui visori, il vomito insozza pavimento e cravatte … Eppure non mi viene da distogliere lo sguardo, non so se affascinata dalle scene o dal misurare la mia distanza da quella forma di contatto, che fonde esperienza, umanità, capacità di decidere di vita e di morte.
La tecnologia avanza ma la società urbana non pare farlo, ostinatamente paralizzata nelle posizioni conquistate e in quelle perdute. Il pronto soccorso del County General Hospital di Chicago è una sacca, un rifugio, in cui vengono depositati i mali della città che è appena lì fuori, e più che una comunità è una giungla. Il pronto soccorso sembra la retrovia di un fronte dal quale affluiscono a ritmo serrato le vittime di guerre fra bande, droghe, alcool, incidenti stradali, maltrattamenti familiari, o semplicemente del non avere un tetto sotto cui riposare. Ma il pronto soccorso non è che un punto di transito, dove ti rimettono in piedi giusto quel che basta per essere rispedito al fronte che non smobilita mai. Se sei nato nel posto sbagliato, sei condannato a combattere il ruolo marginale che ti è toccato, il tuo modo di vivere e di morire. C’è poi la marginalità psichiatrica, figlia della vecchiaia, della solitudine, che raggiunge anche chi era partito con una dotazione migliore.
E.R. è un addome caldo i cui visceri si muovono in fretta ma con ottima coordinazione. L’emozione di strappare corpi esangui alla morte fornisce dosi di adrenalina che provocano assuefazione e rispetto alle quali le gioie della vita privata non possono competere. Mi torna in mente la scena di apertura di Apocalypse Now, in cui il capitano Willard, solo nella sua soffocante stanza d’albergo di Saigon, occupato a bere e a eseguire le movenze di una danza rituale di sua creazione, attende una missione, una missione qualunque. La guerra è una droga che annienta tutto il resto, ti avvolge e isola nel tuo incubo che solo una nuova dose può allontanare. Dalla guerra non c’è ritorno: la vita civile, la famiglia, la villetta nella suburbia o nel compound dell’esercito, non fanno più per te.
Naturalmente, E.R. non è Apocalypse Now. Ma la droga buona del salvare vite non lascia spazio a molto altro. La moglie del dottor Greene cerca di convincerlo ad accettare il posto in un ambulatorio privato, guadagnerebbe dieci volte tanto e avrebbe il tempo di stare con la famiglia. Ma il pacato, responsabile, lucido Mark non può. Promette di esserci di più ma le sue sono promesse da medico del pronto soccorso di Chicago, che gli costeranno la moglie e la figlia.
Sia che tu sia al di qua o al di là dei cancelli del County General Hospital, che tu sia un missionario della cura o un derelitto, per stare al mondo hai bisogno di farti, farti di lavoro, sesso, sostanze, violenza, o di un po’ di tutto insieme. E io, spettatrice, non esco indenne dal ritmo serrato della serie, con le linee narrative che si alternano incalzandosi, le lettighe che si inseguono e vanno a occupare sala emergenze uno, sala emergenze due, sala emergenze tre, mentre la camera si sposta veloce tra l’una e l’altra, senza il tempo di stare con il fiato sospeso per una vita e già sei su un altro caso. Ne voglio ancora, sento la pulsione del binge-watching in tutto il corpo, così che fermarmi dopo un solo episodio, e magari ripassarlo nel pensiero – e vi assicuro che non è facile frenare la marcia e riavvolgere la bobina -, è un autentico corpo a corpo della volontà con i nuovi percorsi neurali che premono selvaggiamente per un’ultima dose, e poi un’altra.
Emergenza e assuefazione. In gara contro il tempo per salvare vite, o per non avvertire il fluire della nostra? Non sappiamo più vivere fra noi se non con una missione, spesso estrema, che ci consegni esausti a un sonno senza sogni?
Non solo questo. La serie si occupa anche della maturazione – disintossicazione – dei personaggi principali, seguendoli lungo il percorso di una faticosa e dolorosa ricostruzione, quel viaggio nella coscienza personale che avevano usato ogni mezzo per evitare. Così Doug Ross, pediatra paterno e sagace, ma anche insofferente di regole e autorità, che tanto è bravo a conquistarsi la fiducia dei suoi piccoli pazienti, quanto è incapace di stare accanto a una donna per più di qualche ora e di concludere il suo giorno libero senza stordirsi di alcool, dovrà scontrarsi con tutti i nodi della sua storia familiare che se ne stavano compressi in un grumo informe di rabbia, prima di presentarsi alla donna di cui è sempre stato innamorato con le parole Sono pulito. Mentre l’amico e collega Mark, mostrato nelle prime due stagioni come modello di salda virtù sia nella professione sia nella vita domestica, avrà bisogno di fallimenti ben più cocenti prima di sedersi a fare i conti con se stesso.