Elogio dell’imperfezione
Lisa Marcelli scorda gli appuntamenti, inciampa e lascia cadere fasci di pratiche, ha qualche chilo di troppo e un’alimentazione disordinata, viene guardata di traverso dalle colleghe per l’abbigliamento e la pettinatura poco curata (che a me pare comunque splendida). Lisa Marcelli accetta di essere trattata a male parole dall’avvocato del quale è diventata l’assistente grazie a una grossa bugia. Per ottenere quel lavoro Lisa Marcelli ha imparato suo malgrado l’inevitabilità di mentire, trovandosi nella paradossale situazione di prendersi cura dei suoi due figli negandone l’esistenza. Una donna con figli non è ammessa nel prestigioso studio Vinci, e infatti le avvocate che si succedono nelle due stagioni di Non dirlo al mio capo (Rai 1) sono modelli di perfetta dedizione al lavoro, di carrierismo, competitività e ambizione, vale a dire di perfetta disumanità.
So di non essere sola nel concludere la giornata abbandonandomi senza riserve all’avvolgente maternalità di Lisa Marcelli, che apparentemente subisce le trame delle colleghe in carriera salvo poi surclassarle nei risultati, grazie a soluzioni che esulano dalla logica avvocatesca. La fiction probabilmente è considerata di profilo troppo modesto per attirare l’attenzione di una tagliente critica di genere. Che le donne impegnate a sbarrare la strada a Lisa, rubare il merito delle sue iniziative, farle lo sgambetto affinché sfiguri davanti al capo, siano innocue macchiette di meschinità e cattiveria non sembra ferire alcuna sensibilità. Al pari di Lisa sono figlie di genitori poco o per nulla amorevoli, ma mentre lei ha riparato alla propria infanzia mettendo al mondo figli che pone sopra ogni cosa, le altre sono schiave della rincorsa all’uomo: filiformi, perennemente fasciate in scollati abiti da cocktail, i piedi compressi in appuntiti trampoli tacco 12, avvezze a usare il sesso per passatempo o lavoro (ma sanno ancora distinguerli?), orripilate dall’idea della maternità che ne sfigurerebbe la linea, le ostacolerebbe nel lavoro e nelle avventure amorose: sono, in una parola, dei mostri.
Guidata dalla sua fede nella famiglia, Lisa Marcelli è una donna tradizionale; per lei il lavoro non è uno scopo ma il mezzo per mantenere i figli e pagare il mutuo dopo l’improvvisa morte del marito (fedifrago). E oltre all’amore e alla responsabilità verso i figli non ha teorie o risposte precostituite; è disorganizzata e tempestata da emergenze familiari per provvedere alle quali non esita ad assentarsi dallo studio nei momenti meno indicati. Ma nonostante tutto ciò la sua umanità rilascia spore trasformative che contagiano chiunque venga a contatto con lei.
Nel suo modo semplificato, la fiction mette in discussione il ruolo della donna in carriera, e propone una via alternativa all’efficientismo aziendalistico, una via nella quale a prevalere sono quella cura e quella sensibilità solitamente attribuite alla natura femminile con il risultato che anche sul lavoro a Lisa riesce di produrre soluzioni inattese, composizioni insperate, recuperi che trascendono le competenze strettamente professionali. L’efficacia non più dunque figlia dell’efficienza a tutti i costi ma frutto del lasciarsi attraversare dalle disavventure e dalle piccole gioie quotidiane a condizione di non perdere di vista il fattore umano, ma anzi celebrandolo. Si lascia anche intendere che con la loro acquiescenza, le donne ambiziose contribuiscono a perpetuare un modello di lavoro disumano, finendo col diventare vittime conniventi di un sistema che soffoca la vita. In una società che chiede alla donna di scegliere tra lavoro e famiglia, questa serale rivalutazione dell’amore e dell’intelligenza materni, che riscattano difetti e carenze e riportano in vita aspetti della convivenza annichiliti dalla corsa al successo, fa sentire meglio tutte noi che arriviamo a fine giornata sfinite e consapevoli di avere trascurato impegni che andranno ad allungare la lista del giorno dopo, deluso le aspettative di una persona cara, dimenticato una telefonata o un appuntamento importante e rimandato di un altro giorno ancora quel famoso spazio per noi stesse… Forse non siamo così male come ci fanno sentire i nostri sensi di colpa o il confronto con quelle donne perfette che ce la fanno sempre a fare tutto, ma come? e a che prezzo sulla vita dei figli? Figli che forse proprio con il nostro ammetterci imperfette/i hanno bisogno di confrontarsi per crescere, per arrivare ad accettare la propria umanissima imperfezione, anziché essere schiacciati da un modello irraggiungibile.
Forse, nel suo modo sommesso, la fiction suggerisce una nuova (vecchia?) visione del potere femminile, fatta di dialogo, confronto e di quel tipo di ascolto che induce l’altra/o a guardarsi dentro, a ritornare a se stessa/o, rinunciando così a usare l’energia della sofferenza rimossa come propellente nel perpetuare la sopraffazione di cui è stata/o vittima.
P.S. Lisa Marcelli è interpretata da Vanessa Incontrada, l’avvocato Vinci da Lino Guanciale; le avvocate crudeli da Giorgia Surina e Sara Zanier. Beneficamente contagiati/e dall’umanità di Lisa lo sono un po’ tutti/e, ma in particolare la simpaticissima coinquilina Perla (Chiara Francini) e la disturbata e infelice apprendista Cassandra (Aurora Ruffini).